PSICOLOGIA DELLA PREVENZIONE ONCOLOGICA:

 

L’IMPORTANZA DELLE PAROLE

 

 

 

 

 

Quando si parla di tumori e psicologia sono tanti gli aspetti che si possono affrontare.

 

Possiamo parlare per esempio di presa in carico del paziente oncologico, cioè di come è possibile aiutarlo ad affrontare lo stress della malattia e il carico di emozioni essenzialmente di paura che ne derivano, e in questo caso si parla di psicooncologia, oppure possiamo parlare di una fase precedente alla malattia, cioè quando abbiamo davanti la persona sana.

 

Anche in questa fase direi primordiale dobbiamo fare due distinguo:

 

da un lato esiste il discorso, ampio, dei rapporti fra emozioni e malattia, il cui approfondimento è demandato a una disciplina che si sta sempre più ampliando e si chiama psicosomatica.

 

dall’altra abbiamo il discorso che vorrei invece affrontare quest’oggi ed è quello relativo alla psicologia delle prevenzione.

 

In che senso?

 

Dunque oggi si fa un gran parlare di prevenzione oncologica, anche grazie a importantissime campagne di screening gratuiti, sta finalmente entrando nella testa delle persone che fare gli adeguati controlli spesso corrisponde a salvarsi la vita. E questo va benissimo, anzi, è un risultato insperato fino a non molti anni fa.

 

Resta però in circolazione un fantasma collettivo potentissimo, che è la parola cancro: attenzione, non sto parlando del cancro in sé, ma del solo suono della parola, potrei dire dell’immagine che la parola cancro veicola. Quando udiamo questa parola, cancro, nascono spontaneamente dentro di noi immagini catastrofiche di malattia, di dolore, di chemioterapia, di capelli che cadono, e spesso di morte.

 

La parola, tutte le parole, hanno un potere enorme, che spesso sottovalutiamo. Depotenziare la carica negativa della parola cancro, aiuterebbe enormemente ciascuno di noi da un lato ad affrontare i controlli preventivi con maggiore serenità, dall’altro, nei casi più avanzati, ad affrontare la malattia con uno spirito diverso, che contempli anche la speranza. Perché vedete la speranza, l’ottimismo, la positività sono determinanti nella buona riuscita delle cure: fioriscono ormai gli studi scientifici che dimostrano come pazienti ottimisti abbiamo prognosi migliori rispetto a pazienti che si lasciano sopraffare da sentimenti di depressione e paura.

 

 

 

Ma dicevamo del potere immaginifico e salvifico delle parole. Per capire l’importanza e la forza enorme delle parole e delle immagini da esse evocate, vorrei portarvi come esempio la figura di Milton Erikson. Io sono una psicoterapeuta, come vi dicevo prima, e sono specializzata anche nell’uso dell’ipnosi per il trattamento di stati di dipendenza o ansiosi. L’ipnosi è una tecnica di cura basata sulla parola e sull’immagine: oggi si impiega l’ipnosi cosìdetta eriksoniana, perché è stata messa a punto proprio dal dottor Milton Erikson il quale ha avuto una vita davvero straordinaria, che vale la pena di conoscere per trarne insegnamento. Milton Erickson è nato nel 1901 ad Aurum, nel Nevada.

 

 

 

La sua infanzia è stata segnata da molteplici difficoltà: dislessico, affetto da una cecità cromatica (l’unico colore che poteva vedere era il viola) e con una sordità tonale per cui non sentiva il ritmo. A 17 anni è colpito dalla poliomelite. Uscito dal coma, era completamente paralizzato. Per i medici non c’era più nulla da fare: lui trascorreva quindi le sue giornate a pensare. Invece che abbandonarsi alla disperazione, era una persona eccezionale, si concentra sul ricordo dei movimenti passati e osservando le modalità con cui una sua sorellina imparava a camminare, dopo un anno girava con le stampelle. Aveva fatto tutto da solo: semplicemente immaginando il movimento che ricordava di aver fatto fino a un anno prima. E’ straordinario.

 

Da giugno a settembre naviga da solo su una pagaia lungo il Mississippi percorrendo 1200 miglia: lui che zoppicava, faceva fatica a stare in piedi e non aveva né forza fisica né resistenza.

 

Quando torna a casa si laurea in medicina e studia psichiatria.

 

 

 

Nel 1952, Erickson rimane vittima di un evento molto raro in medicina, fu colpito da un altro ceppo di poliomielite. Dopo il secondo attacco di poliomielite rimane in carrozzina con le gambe e un braccio paralizzati. Nonostante ciò Erickson ha avuto 2 mogli e 8 figli. Muore a 78 anni nel 1980.

 

 

 

Questo per inquadrare il personaggio: ma cosa ci ha insegnato?

 

Il Dr. Erickson ha messo a punto, come dicevamo, una tecnica di ipnosi meno direttiva di quella classica che è passata poi alla storia con il nome di ipnosi eriksoniana. Con questa tecnica si pone il paziente in uno stato di coscienza alterato, che non è sonno e non è veglia, e si “seminano” nel suo inconscio immagini positive e curative, che siano in grado di risvegliare le potenzialità che sono già presenti dentro di lui e che tuttavia giacevano sopite nelle profondità della sua psiche.

 

Erikson, attraverso il semplice uso delle parole e delle immagini, ha collezionato risultati straordinari anche con pazienti ritenuti non trattabili da altri specialisti.

 

 

 

Questo significa che se l’immaginazione cura, come hanno dimostrato la lunga carriera di Erikson, la sua vita, e tutto il lavoro portato avanti dai suoi allievi, può anche ammalare e far ammalare: questo è il concetto di ideoplasia.

 

Con il termine ideoplasia si tende ad identificare il potenziale che la mente (l'immaginazione) adeguatamente orientata ha di agire sul corpo. Monoideismo plastico e ideoplastia sono sinonimi. Il professor Franco Granone, che lavorava a Torino, ha stabilito che:

 

 

 

“Con "monoideismo plastico" si vuole intendere la focalizzazione dell'attenzione su una sola idea, ricca di contenuto emozionale; idea dotata di una forza ideoplastica, cioè di una componente creativa nei confronti dell'organismo che è in grado di suscitare modificazioni psichiche, somato-viscerali e comportamentali”.

 

 

 

Questo vuol dire, in parole semplici, che un’idea, un’immagine, una parola è in grado di suscitare modificazioni psichiche, e questo è chiaro, ma anche somato-viscerali e comportamentali: cioè parlare di cancro o di tumore cambia il nostro approccio alla questione, cambia in modo determinante il modo in cui noi ci avviciniamo al problema sia esso una visita di prevenzione, di controllo, o un percorso di cura. La parola cancro evoca scenari di morte come dicevamo prima, la parola tumore lascia spazio alla speranza e alla vita. E l’immaginazione, abbiamo imparato, fa la differenza.

 

 

 

Quindi, senza entrare troppo nei tecnicismi e nelle minuzie, il compito che ci aspetta, che aspetta tutti noi, professionisti e utenti, a partire proprio da incontri e convegni come quello di oggi, è quello di cambiare il nostro approccio al discorso tumore, partendo dalla cosa più semplice ma più complicata: dobbiamo riuscire, attraverso adeguate campagne di sensibilizzazione, di incontri, di convegni, di workshop, di incontri medici-pazienti, a depotenziare, a distruggere, a scalfire il potere fantasmatico negativo evocato dalla parola cancro, per darci la possibilità di non farci attanagliare dalla paura, e quindi di non cedere alla depressione e alla tristezza, ma dare libero sfogo alle risorse energetiche, vitali e curative che sono naturalmente dentro ciascuno di noi.

 

 

 

 

 

dott.ssa Elisa Balconi